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Convegno su “Giustizia e Diritti” – Quale futuro per le Forze Armate Europee

Roma 1 Marzo 2005 – Questo convegno su Giustizia e Diritti dello specifico militare si svolge in un momento storico politico molto particolare per la vita della Repubblica Italiana e  della Comunità europea.

Nelle vicende di politica internazionale che hanno caratterizzato questo inizio di secolo, è fortemente evidente l’influenza che gli strumenti militari hanno nella definizione degli orientamenti economici, sociali,  culturali e istituzionali dell’intero pianeta.

Oggi, forse più di ieri, la politica dei singoli stati è improntata su una supremazia militare e sulla capacità di influenzare le scelte di organizzazione sociale, statuale e legislativa fino a porre in essere, attraverso essa,  uno stato permanente di “assedio”  delle istituzioni e degli organismi deputati al controllo della legalità.

In questa ottica vengono stravolti e sacrificati alcuni cardini dello stato democratico, quali la libertà di pensiero, la libertà di movimento e la libertà di organizzazione sindacale per alcune categorie di lavoratori.

Quello che ne deriva, per tornare allo specifico nazionale, è uno stravolgimento della nostra Carta Costituzionale nei suoi precetti fondamentali di tutela della libertà individuale e collettiva, del rispetto della dignità umana,  di partecipazione attiva alle scelte politiche e sociali del paese.

Le recenti riforme  istituzionali (fondamentali   per la vita democratica di questo Paese), concernenti  i settori della  Giustizia, delle Forze Armate e   di Polizia hanno da una parte dato avvio a necessari assestamenti in merito alla razionalizzazione delle risorse disponibili; dall’altra hanno invece reso iniqua l’azione dello Stato nei confronti di alcuni dei suoi cittadini.

Le incomprensibili separazioni tra cittadini e poteri istituzionali che si sono generate negli ultimi dieci anni a seguito di numerose riforme, sono dovute in prima analisi alla mancata costituzione di organismi deputati al controllo democratico delle stesse.

La mancanza di contemperamento  tra il nuovo assetto di alcune istituzioni dello Stato e la società di riferimento, hanno reso del tutto vane, se non addirittura pericolose, molte di queste riforme.

È ovvio che ogni società ha il dovere di rimodellare la sua organizzazione statale alle esigenze che un’evoluzione sociale richiede e da cui trae una ragione di esistenza, ma è altrettanto ovvio che in una nuova organizzazione quale quella delle Forze Armate professionali, non possono essere sacrificati i principi morali, culturali ed etici che sono alla base del contratto sociale tra tutti i cittadini appartenenti al medesimo stato.

Tra le tante riforme messe in cantiere in questi anni, quelle delle Forze Armate e di Polizia riteniamo siano di interesse primario per la sopravvivenza dello Stato Repubblicano e per la sua futura partecipazione alla Comunità Europea.

Dal 2000 ad oggi ci sono almeno due passaggi legislativi che meritano un’attenzione particolare.

La prima in merito alla trasformazione dell’Arma dei Carabinieri in autonoma  Forza Armata; la seconda è la Professionalizzazione delle Forze Armate con la conseguente sospensione della leva militare che questa ha comportato.

Due riforme che non possono essere viste separatamente perché rappresentano un passaggio delicatissimo ed importante, dato che alcune sfere di competenza costituzionale, quale il controllo di polizia e quello del territorio, assumono nuovi assestamenti.

I carabinieri che fino al 2000 svolgevano compiti di polizia anche militare, avendo strutture ed organizzazioni idonee al lavoro di investigazione e di controllo, oggi sono una vera e propria Forza Armata con mezzi e reggimenti che prima erano di competenza del solo esercito.

Si è trasformato un apparato dello Stato già preposto alla prevenzione e repressione della criminalità, in apparato di difesa e di guerra, dotandolo di un potenziale bellico capace di intervenire come un vero e proprio esercito, avendone acquisito tutti i requisiti.

In tal modo si è operata una vera e propria rivoluzione istituzionale che non trova riscontri in altri Stati della Comunità Europea; il potere attribuito all’Arma dei Carabinieri è spropositato e illogico, dato che oggi possiamo ben dire che l’ordine pubblico in Italia è gestito non più da una forza di polizia,   bensì da un apparato militare dello Stato, dotato di armamento pesante e idoneo  ad affrontare una guerra piuttosto che il controllo del territorio.

Irrazionale ed illogico, perché l’operazione  ha causato lo smantellamento di grandi unità corazzate dell’Esercito in ragione   del ridimensionamento dei quadri delle forze armate e in previsione della professionalizzazione della leva militare. Ciò che era di troppo nell’Esercito o che bisognava sacrificare alle esigenze del nuovo modello di difesa in termini di ridefinizione funzionale e strutturale e di ridimensionamento degli organici diventa operazione ininfluente per la trasformazione dell’Arma dei Carabinieri in autonoma FF.AA.

In questo contesto è evidente che si sta andando verso una militarizzazione sempre più accentuata delle istituzioni dello Stato che dovrebbe far riflettere la classe politica italiana, sia sul ruolo delle nostre Forze Armate sia sul controllo istituzionale delle stesse.

In questo contesto, ad esempio, non è stato previsto, come invece è avvenuto in Francia con la Gendarmerie francese (che ha analogie molto strette con i nostri Carabinieri), un dirigente civile al posto di uno militare, che svincolasse l’Arma dei Carabinieri da un accentuato corporativismo finora contenuto dall’appartenenza subordinata della stessa arma all’Esercito Italiano e oggi invece totalmente indipendente rispetto ad ogni altra organizzazione dello stato.

Non è infatti riscontrabile in nessuno Stato Europeo una così notevole concentrazione di poteri in una istituzione militare, che oltre ai compiti di polizia ha anche reparti operativi di tipo squisitamente militari.

Ma le situazioni delle altre tre Forze Armate Italiane, Esercito, Aeronautica e Marina, non sono migliori.

A seguito della sospensione del servizio di Leva, siamo passati da un Esercito Popolare, contemplato dalla nostra Costituzione all’art. 52, ad uno professionale.

Il vincolo dell’Art. 52 della Costituzione che recita   “ la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, viene oggi spogliato dall’enfasi della sacralità e sostituito da un più generico significato che tende a far pensare che esso sia questione attinente a  prestatori d’opera retribuita,   vincolati da un contratto di lavoro.

In questa nuova visione, il militare professionista non può essere più considerato un missionario al quale si delega una funzione paragonabile ad un ordine o ad una fede religiosa, ammesso e concesso che così veniva percepito il soldato italiano.

È evidente che siamo di fronte ad una figura istituzionalmente nuova che non trova fondamento alcuno nella concezione culturale militare italiana dal dopoguerra ad oggi.

Lungi dall’interpretare il volere del legislatore in materia di diritti/doveri costituzionalmente sanciti, resta a noi la sola riflessione relativa al funzionamento e all’aderenza del nuovo assetto istituzionale delle forze armate rispetto all’art. 52 della Costituzione.

Oggi, il sacro dovere di difendere la Patria non è più del cittadino soldato,   bensì di un militare professionista.

Questa trasformazione implica quattro aspetti fondamentali:

  1. il servizio militare non è più reso da tutti i cittadini;
  2. il militare professionista è un prestatore d’opera qualificata e particolare;
  3. la partecipazione del soldato professionista alla vita politica e sociale del Paese, diventa una garanzia irrinunciabile;
  4. il nuovo assetto istituzionale, deve essere contemperato con organismi di garanzia democratica esterni alle Forze Armate e sganciati dall’influenza della gerarchia militare.

Se si analizzano i quattro punti esposti, si possono individuare alcuni tratti caratteristici ai quali dare una risposta in termini di organizzazione e controllo democratico delle Forze Armate.

La prima è ovvia e si basa sull’assunto che il costituente, nella formulazione del 1° comma dell’art. 52 della Costituzione, ha voluto sancire la garanzia che le Forze Armate non fossero soggette a spinte ideologiche o antidemocratiche.

La partecipazione di tutti i cittadini al servizio militare, serviva proprio a preservare la neonata Repubblica da spinte corporative e reazionarie, affidando a tutti e non a pochi soggetti, il potere delle armi in dotazione alle Forze Armate.

Il dibattito dei Costituenti intorno a questo tema, traeva fondamento dalle vicende storiche legate al fascismo e al nazismo.

Quello che si voleva evitare era proprio il corporativismo, l’asservimento del potere armato dello Stato ad alcune elite intellettuali, politiche o militari, che potevano servirsene a proprio vantaggio.

Quello che si era verificato con l’istituzione della Guardia Nazionale Fascista, dove venivano reclutati e addestrati uomini fedeli al potere esecutivo, o l’epurazione dalle file dell’esercito regio di militari non allineati al regime, era un tema che toccava in profondità la coscienza dei Costituenti.

La partecipazione popolare al servizio militare rappresentava quindi, la garanzia che tali situazioni, non potessero più verificarsi.

L’enfasi di sacralità attribuito al dovere di difesa della Patria da parte di tutti i cittadini, era un principio sancito per evitare che l’uso degli armamenti delle Forze Armate fosse relegato ad una élite di professionisti.

È proprio nell’ambito dell’Assemblea Costituente che troviamo vari orientamenti sull’assetto democratico dell’organizzazione militare.

L’On. Moro e il relatore dell’Art. 52 cost. Merlin, posero la questione del controllo democratico delle Forze Armate come elemento essenziale per la vita della Repubblica e chiesero con decisione l’inserimento del 3° comma dell’art. 52 della Costituzione che recita “L’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, volendo dare in tal modo un segnale davvero riformista rispetto al passato.

Il perché si sia insistito per inserire il comma 3 dell’Art. 52 nel contesto organizzativo delle Forze Armate, risponde alla consapevolezza che era necessario sottolineare che non potevano esistere ordinamenti differenziati all’interno della organizzazione dello stato.

Quindi nessuna giustificazione può essere posta come elemento discriminante, sotto il profilo giuridico, della differenza di trattamento tra i militari e gli altri lavoratori dello stato; anzi, sembrerebbe che proprio nelle organizzazioni armate il principio della democraticità debba essere rafforzato e non certo limitato.

Neanche l’assunto dell’Art. 98 Cost. può intervenire in senso limitativo delle garanzie individuali e collettive dei cittadini militari nell’esercizio delle libertà sindacali, dato che lo stesso recita “..“si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera  in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero” agendo in questo caso sul presupposto del mantenimento dell’apoliticità delle Forze Armate e non anche su qualsiasi diritto costituzionalmente sancito e protetto.

Ed è proprio nella distinzione operata tra i militari di carriera in servizio attivo rispetto a quelli di leva che si può osservare il contemperamento  tra potere istituzionale e garanzie popolari.

La presenza del coscritto di leva, a parere del costituzionalista, garantiva l’apoliticità delle forze armate, in quanto sinonimo di  pluralismo, utile a scongiurare il corporativismo anche di stampo politico o ideologico.

La libertà del cittadino soldato di aderire ai partiti politici anche nella condizione di militare, seppur di leva, veniva interpretata come apoliticità delle forze armate e quindi, di fatto, garante dei valori repubblicani.

Con la formula della sospensione della leva e non la abrogazione del servizio militare, avvenuta con la legge 78 del 2000, si è voluto eludere un principio di garanzia Costituzionale che serviva alla Repubblica per preservarsi da spinte corporative ed ideologiche di matrice militare o di assolutismo politico.

Non si critica l’aver voluto sollevare da un obbligo costituzionale quei ragazzi che per convinzione religiosa, laica o quant’altro, non abbiano voluto prestare il servizio militare;  riteniamo giusto che  una qualsiasi evoluzione sociale possa contemplare scelte “nuove” sotto il profilo dell’organizzazione statale;  quello che però ci sentiamo di osservare è che, a fronte dello smantellamento di una garanzia Costituzionalmente sancita, non  siano stati previsti contrappesi istituzionali    che sostituissero la partecipazione popolare nelle forze armate.

L’elemento perturbante in questo contesto, è l’aver voluto trasformare un esercito di leva in uno professionale senza però introdurre nel dibattito politico una riflessione attenta al problema del controllo istituzionale.

Se nell’arco dei 57 anni di Stato Repubblicano,    affrontando la questione relativa al personale delle Forze Armate si è sempre  enfatizzato sul diritto/dovere di ogni cittadino di difendere la Repubblica, oggi, alla luce del nuovo assetto ordinamentale delle stesse Forze Armate occorre ridefinire i margini dei diritti dei militari professionisti quali elementi di garanzia democratica dell’ordinamento,  che sostituiscono la previgente consapevolezza dell’influenza imposta dalla leva obbligatoria.

Per fare un esempio, possiamo dire che: mentre con i militari di leva era più difficile realizzare in concreto una forma corporativa di militari che potesse sfociare in forme di aggregazione caratterizzate anche ideologicamente o fondate su di uno spirito di corpo più forte del senso di giustizia, oggi le caserme sottraendosi al sindacato ispettivo della volontà popolare, acquistano, volenti o nolenti, una autonomia di tipo corporativo.

La nuova figura del militare professionista si pone come un soggetto che presta un’attività lavorativa al pari del poliziotto, del vigile del fuoco, del magistrato, del medico dell’insegnante e via dicendo, configurandosi, a tutti gli effetti, come un lavoratore dello Stato a cui sono demandati compiti particolari.

Ed è proprio nella peculiarità di questa nuova attribuzione, che devono verificarsi dei cambiamenti di indirizzo politico e di gestione, che devono caratterizzarsi attraverso un controllo penetrante ed oculato nel modo di amministrare il personale militare.

Nella tradizione militare italiana del dopoguerra, questo controllo è stato demandato alle stesse autorità militari e ad altre Istituzioni come quello della magistratura militare.

Né l’una né l’altra attualmente sono in grado oggi di rivestire questo ruolo di garanzia.

La prima per ovvie ragioni di incompatibilità, dato che anche e soprattutto la gerarchia militare deve essere sottoposta in primis al controllo della sua azione di comando, la seconda perché, oltre al ruolo anacronistico e antistorico della magistratura militare nel contesto del sistema giudiziario italiano e anche europeo, non si ritiene opportuno eticamente e moralmente, una differenziazione di trattamento tra il cittadino e il soldato.

Per quanto attiene alle funzioni di controllo democratico dell’istituzione militare, la delega alle gerarchie, oltre a presentare gli aspetti negativi sopra elencati, presenta delle contraddizioni in essere.

Infatti, se è vero che la disposizione Costituzionale dell’art. 52, tendeva ad una presenza massiccia di cittadini in armi per un breve periodo di tempo, contratto negli ultimi decenni ad un solo anno,con la nuova strutturazione dell’esercito professionale si ha un vincolo contrattuale di lunga durata, derivato dal periodo di addestramento e dall’obbligatorietà della durata della ferma imposta dai bandi concorsuali.

L’addestramento, la permanenza nel periodo di ferma obbligatoria e la futura progressione di carriera, sono elementi coordinati, controllati e giudicati dalla gerarchia militare.

Con tutto il rispetto dovuto per la gerarchia militare, pensiamo che la separazione dei poteri, così cara all’illuminismo francese, è auspicabile anche nel nuovo assetto dell’organizzazione militare, pertanto la scelta di delegare alla catena di comando il controllo del funzionamento democratico delle Forze Armate, non garantisce quell’imparzialità di giudizio ora necessaria più che mai.

Per quanto attiene alla Magistratura Militare, le valutazioni sono di ordine diverso.

Diamo pure per scontato, che la giustizia militare ha svolto in questi anni un ruolo determinante per definire i margini di intervento giudiziario nei confronti degli appartenenti alle Forze Armate, sapendo applicare con sapienza e professionalità il codice militare di pace e sollevando di volta in volta i vizi di legittimità costituzionale degli articoli ivi contenuti ma crediamo sia arrivato il momento di ripensare al reato militare contemplandolo all’interno del codice penale e a quello di procedura penale e quindi demandandolo alla magistratura ordinaria.

Come si è operato ad esempio, per la professionalizzazione delle Forze Armate riformando una struttura che non rispondeva più alle esigenze della nostra società, altrettanto auspichiamo nei confronti dei tribunali militari, che, avendo fatto la loro storia, si pongono in una dimensione che oggi non ha ragione di esistere se non per particolarissimi casi.

Infatti, già nel 1996 l’Associazione Nazionale Magistrati Militari, chiedeva la sospensione dei Tribunali Militari con il transito dei magistrati nei tribunali ordinari.

La tesi, decisamente sostenibile per tante ragioni, una delle quali è  l’immissione in ruolo dei magistrati militari in quelli ordinari portandovi un beneficio in termini di organici che allo stato attuale sembrano carenti, veniva supportata da una nuova prospettazione del reato militare, visto come una particolarità di quello contemplato nel codice penale.

Quindi, più che aggiornare il codice penale militare di pace, si chiedeva di aggiornare quello penale ordinario, contemplando anche i reati militari.

La proposta dell’Associazione Magistrati Militari non solo ci trova pienamente d’accordo, ma ci consente di affermare il concetto dell’inutilità dei tribunali militari in tempo di pace, che semmai andrebbero attivati in un’eventuale dichiarazione dello stato di guerra.

C’è da rilevare che l’Italia è uno dei pochissimi stati democratici occidentali, a mantenere in vita i tribunali militari anche in tempo di pace.

Resta comunque dubbia ogni ipotesi di intervento di organi giudiziari in merito al controllo del funzionamento delle Forze Armate professionali, dando per scontato che la magistratura, sia essa militare sia ordinaria, si occupa di amministrare la giustizia e non anche di prevenire i reati, sfera di competenza del legislatore e non del giudice.

Quella che invece a nostro parere andrebbe sviluppata, è l’integrazione del sistema italiano di difesa con quello europeo, con tutti gli annessi e connessi non solo di matrice prettamente militare.

Per integrazione debbono necessariamente intendersi tutti quegli atti che convergono in una politica del diritto comunitario, includendo il rispetto della dignità umana in ogni sua espressione, non escludendo i lavoratori militari.

Negli ultimi dieci anni, gran parte dei Paesi della comunità europea hanno (o stanno) abbandonato il sistema di leva per quello professionale.

La Spagna e la Francia sono le ultime in ordine di scelta.

Nei nuovi modelli di difesa proposti nelle rispettive sedi parlamentari, emerge chiaro l’intento del riconoscimento dei diritti civili e politici ai militari senza restrizioni di sorta.

Sia il modello francese sia quello spagnolo, prevedono una organizzazione di tipo sindacale tra gli appartenenti alle Forze Armate.

La formula della concessione sindacale al personale militare, è scaturita dall’esigenza di avere un canale di dialogo tra la società e le proprie Forze Armate, ricalcando i modelli già largamente diffusi nel resto degli eserciti europei.

Già altri Paesi appartenenti alla comunità europea hanno concesso la libertà sindacale al personale militare, tra questi la Germania, l’Austria, l’Olanda, il Portogallo, la Norvegia, l’Irlanda, il Belgio, l’Ungheria,la Finlandia,la Svezia,  la Slovenia,la  Repubblica Ceca e quella Slovacca.

Nel Regno Unito,pur esistendo un sistema che garantisce un legame strettissimo tra le massime autorità governative e quelle militari in termini di benefici economici e sociali si sta attualmente discutendo l’opportunità di concedere ai militari il diritto di esercizio delle libertà sindacali.

La necessità di contemperare i diritti di tutela  dei militari con la funzionalità degli ordinamenti  viene avvertita come una esigenza  democratica, ossia come  un cardine importante per il funzionamento democratico delle istituzioni dello stato.

Quindi una necessità della democrazia, piuttosto che una concessione ad una classe di lavoratori quali quelli militari.

È evidente che nel panorama europeo è ben chiara la strada da percorrere rispetto all’integrazione dei diritti e dei doveri dei cittadini della comunità, e in questo ragionamento dell’allargamento dell’esercizio dei diritti, non sono esclusi i militari con le loro organizzazioni sindacali; resta a questo punto paradossale e illogica la posizione dell’Italia e della Grecia, che allo stato attuale sono gli unici due paesi della comunità che non hanno concesso, e sembra nemmeno vogliono concedere, il diritto di associazione sindacale alle rispettive Forze Armate.

In Italia, ad esempio, a parte qualche eccezione, sono stati presentati disegni e proposte di legge in materia di diritti sindacali delle Forze Armate,  che ricalcano il modello della Rappresentanza Militare istituita nel 1978.

Un’organizzazione, la Rappresentanza dei Militari organica alla gerarchia che dalla stessa viene controllata e indirizzata e che presenta spiccate caratteristiche corporative, tanto da contemplare il voto come dovere militare sottoposto a vincolo disciplinare.

Quello che ne deriva è una somma di voti che ha il solo scopo di costituire un organismo centrale, dove comunque a capo dello stesso siede un alto ufficiale che gestisce, punisce, coordina e controlla l’operato di quei militari che ne fanno parte.

In un tale contesto, dove manca del tutto una autonomia sia organizzativa sia di indirizzo, rimane quindi impenetrabile per la pubblica opinione e la classe politica, la gestione dell’apparato militare.

Il nuovo assetto professionale delle Forze Armate invece esige un controllo svincolato dalla gerarchia militare e sottoposto ad una più penetrante ed incidente politica della trasparenza nei confronti della gestione dei rapporti interni.

Questo è un presupposto che serve a garantire la piena affidabilità dell’apparato militare nei confronti delle istituzioni repubblicane e in analogia agli altri paesi europei democraticamente avanzati, non si possono più considerare gli appartenenti alle Forze Armate come soggetti scollati dalla società di appartenenza, in quanto siamo in presenza di un’organizzazione armata che è la sola ad avere delle armi, a saperle usare e infine a potersene servire.

Con la fine della leva è tramontata anche la condizione di garanzia democratica che i Costituenti avevano affidato all’ esercito di popolo;  come hanno già fatto  quasi  tutti i Paesi della Comunità Europea, occorre oggi un contrappeso interno che eviti l’isolamento delle Forze Armate dal resto del Paese.

La via del riconoscimento della libertà sindacale agli appartenenti alle Forze Armate italiane, diventa un passaggio obbligato, in quanto rappresenta l’unico strumento di collegamento con gli italiani e la classe politica, e quindi anche con la società di riferimento.

Inutile ribadire che la piena integrazione con il sistema Europa in termini di diritti, di difesa comune e di giustizia, si basa sul riconoscimento dei militari italiani come soggetti attivi e partecipi dei processi civili, sociali, etici, morali e democratici del Paese.

D’altra parte è illogico pensare che chi viene inviato in missioni di pace per ripristinare la democrazia, subisca egli stesso una contrazione dei diritti che sola questa può concedere.

Questo convegno vuole fissare un punto di non ritorno nel panorama politico italiano, specie in questo momento dove si paventano riforme reazionarie nella gestione delle Forze Armate con l’adozione di un nuovo codice penale militare di pace e di guerra e il rafforzamento della giustizia militare che sembra andrà ad interferire profondamente non solo sui militari di carriera ma anche nei confronti di tutti quei cittadini che si dovessero interessare delle problematiche militari.

Non solo rimaniamo uno dei pochissimi Paesi Democratici al mondo ad avere una giustizia militare, ma addirittura si pensa a questa in termini di rafforzamento e di allargamento delle  competenze inquirenti e giudicanti.

In tema di diritti dei militari, l’Italia, superata largamente anche dalle nuove democrazie europee  provenienti dal blocco sovietico e da   quelle di recente costituzione quali il Portogallo e la Spagna sembra destinata ad un percorso all’indietro.

Il pericolo di questa inversione di tendenza dell’Italia in temi così cari alla nostra cultura e alla tradizione risorgimentale-repubblicana, è quello di creare una spaccatura tra la società e le  articolazioni istituzionali dello Stato destinate ad agire ognuna rispetto alle altre  come una monade , avendo perso il punto di riferimento costituzionale nell’essenza del suo significato, che certo non è quello restrittivo e oppressivo, ma bensì, quello di una società aperta ai cambiamenti nel senso più largo del suo significato terminologico.

Permettetemi di concludere questo intervento con una citazione di Alexis de Tocqueville, che mi accompagna da qualche anno.

È vecchia di quasi 200 anni, ma conserva un valore  pedagogico di enorme attualità.

Dice: “..l’uguaglianza delle condizioni di vita così come le istituzioni che ne derivano, non sottraggono dunque un popolo democratico all’obbligo di mantenere un esercito, il quale esercita sempre sul suo destino, una grande influenza. È dunque importante studiare la composizione sociale di questi eserciti ed il comportamento e le tendenze di coloro che lo compongono.

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